Risalita in cerca di slancio. L'evasione blocca lo sviluppo

Scenari economici Confindustria n°25 - Dicembre 2015.

 

Lo scenario economico globale è sempre più dominato dalle quattro grandi tendenze evidenziate a partire dalla fine del 2014: lenta crescita globale, prezzo del petrolio ridotto, tassi ai minimi storici e cambio dell’euro debole.

Il vero rebus è il mancato decollo della ripartenza italiana.

I movimenti delle principali variabili internazionali si sono piuttosto rafforzati anche nei mesi recenti e hanno raggiunto un’intensità elevata, già considerata come sviluppo possibile nel quadro presentato tre mesi fa.

Tali movimenti, comunque, generano onde di instabilità certo non rassicuranti.

Il PIL mondiale avanza sempre più tentennando a un passo inferiore alla media del dopoguerra (4,0% annuo; 4,7% nel 1952-79) e a quello dei primi 2000 (5,1%). Il commercio mondiale fa nettamente peggio per ragioni specifiche che delineano una nuova fase della globalizzazione e ciò condiziona non solo le esportazioni ma anche le scelte delle imprese.

Quantitativamente ci sono state battute d’arresto analoghe e perfino peggiori nei passati sessant’anni, legate ai punti di svolta nell’ordine mondiale segnati dai due shock petroliferi. Sono le caratteristiche qualitative a evocare oggi la stagnazione secolare.

Ne spiccano due: la montagna di debiti, soprattutto privati, che ingolfa i bilanci e invischia i meccanismi del credito; e la fine del boom demografico, accompagnata dall’invecchiamento della popolazione. Sono, invece, meno certi e ineludibili gli effetti dei minori guadagni di produttività ottenibili dalle nuove tecnologie e l’abbassamento del tasso di accumulazione.

Le politiche monetarie possono alleviare la digestione degli alti debiti. Su tutto il resto sono chiamati in campo gli altri protagonisti delle politiche (non solo economiche), che invece appaiono, nel migliore dei casi, titubanti.

Il mercato petrolifero è nettamente del compratore e tale rimarrà, dato l’enorme eccesso di offerta e nonostante l’aumento della domanda (meno veloce d’un tempo). Le quotazioni non hanno probabilmente raggiunto il fondo.

I tassi di interesse non sono mai stati così bassi nella storia monetaria, dall’invenzione delle banche centrali avvenuta oltre quattro secoli fa. E faranno parte del panorama ancora a lungo, perché la bilancia dei rischi pende minacciosamente verso la deflazione.

La debolezza dell’euro è specchio della fragilità economica, finanziaria e politica dell’insieme delle nazioni che l’hanno in condominio, ed è strumento per ridare fiato alle loro asfittiche performance produttive e occupazionali. Perciò durerà.

La somma algebrica di queste quattro forze dà nell’insieme una spinta considerevole al PIL italiano, che si è via via potenziata. Ora il CSC stima che sia pari a 1,9 punti percentuali nel 2015 e a 1,2 punti aggiuntivi nel 2016. Questo dice il modello econometrico.

Analogo risultato si ottiene con un approccio meno sofisticato e più pragmatico: la minore bolletta petrolifera vale 21 miliardi di euro quest’anno e 24 il prossimo (per non parlare dei prezzi ribassati di altri input importati, energetici e non); gli oneri finanziari nel solo settore privato calano di 5 miliardi nel 2015 e di ulteriori 5 nel 2016.

In totale, dunque, un risparmio pari a 26 miliardi nel 2015 e 34 nel 2016, ossia oltre il 2% del PIL. Un vantaggio che è persistente e al quale andrebbero aggiunti i benefici della svalutazione.

Tale spinta poderosa non ha, però, lasciato finora un segno evidente nella risalita dell’Italia dagli abissi raggiunti per la recessione. Ci sono molte possibili spiegazioni di ciò, in larga parte già esplorate in analisi precedenti..

Per esempio, e per memoria, il nuovo contesto forgiato dalla crisi condiziona i comportamenti degli operatori, rendendoli stabilmente più prudenti.

Inoltre, l’aggiustamento dei bilanci all’arretramento dei redditi e alla più ardua sostenibilità dei debiti non si è concluso, mentre vanno ricostituiti risparmio delle famiglie e margini delle imprese. Ancora, la severa selettività del credito bancario tende a zavorrare anziché ad assecondare il rilancio.

Oltre a ciò, e logicamente prima di tutto, il potenziale di crescita del Paese, già inadeguato (tra l’altro, racchiude in sé tutti gli ostacoli al fare impresa), è stato ulteriormente diminuito dai colpi del crollo della domanda e della produzione, degli investimenti e dell’occupazione, con sacche di senza lavoro che sono sempre più strutturali.

Nelle costruzioni, poi, c’è un enorme stock di invenduto, soprattutto di immobili commerciali, benché la convenienza a comperare casa sia diventata altissima grazie al costo minimo dei finanziamenti.

Infine, la perdita di competitività, dovuta all’incremento del costo del lavoro che è rimasto disallineato dalla produttività, ha spiazzato molte attività e assottigliato la redditività degli investimenti.

Tutto ciò ha reso poroso il tessuto economico italiano, facendogli assorbire larga parte dei risparmi dovuti ai fattori esterni, percepiti più come momentanei e come un incremento durevole del potere d’acquisto, sul quale poter fare affidamento.

Con il passare del tempo, la constatazione della loro permanenza può persuadere a spenderne una fetta più consistente.

In concreto, ciò significa che le ricadute positive si riveleranno con ritardo rispetto a quanto accadeva in passato.

Tutto vero, ragionevole, comprensibile e più volte argomentato anche dal CSC.

Ma non basta a dar conto del fatto che in estate, invece della pronosticata accelerazione, ci sia stato un sorprendente scalare di marcia. Che non può essere ricondotto alla pessima piega presa dagli scambi mondiali a causa delle difficoltà degli emergenti, visto che essa era già incorporata nei calcoli del CSC.

Tanto più che gli indicatori qualitativi (fiducia, valutazioni dei responsabili degli acquisti) e le informazioni raccolte presso gli operatori (turistici, in particolare) fornivano solide basi per attendersi un ritmo di aumento più rapido del PIL, certo non più lento. Questi stessi indicatori hanno raggiunto nuovi e più elevati valori e legittimano e giustificano l’aspettativa di numeri migliori nel trimestre corrente.

È già accaduto che le statistiche dell’economia italiana fossero riviste, anche sensibilmente, verso l’alto. Per adesso, però, ogni ragionamento deve partire dalla realtà che attualmente dipingono.

Una realtà che obbliga a ribassare le previsioni per il PIL italiano, perché ha conseguenze non solo sulla media di quest’anno ma anche sullo slancio ereditato dal prossimo.

Il nuovo scenario economico del CSC si basa su una crescita del PIL e del commercio mondiali che riprendono gradualmente vigore, pur rimanendo frenati: +1,1%, +2,5% e +3,0% gli scambi globali nel triennio 2015-17. Su un prezzo del petrolio che si riprende un po’ (a 55$ nel 2017). Su un cambio dell’euro stabile, per metodo di lavoro, a 1,10 contro il dollaro. Su tassi di interesse inchiodati ai minimi, e forse anche sotto.

Le nuove previsioni CSC sul PIL italiano sono di +0,8% nel 2015, +1,4% nel 2016 e +1,3% nel 2017. Nel triennio saranno creati 650mila posti di lavoro, che portano a 815mila il totale da quando sono ricominciati ad aumentare.

Si tratta di numeri prudenti, dettati dallo scollamento tra alcune evidenze e informazioni e le statistiche rilasciate dall’ISTAT. I rischi sono prevalentemente verso l’alto.

La lotta all’evasione è parte integrante e imprescindibile di un coerente programma di risanamento (anche morale) e di rinascita strutturale dell’economia italiana. È essa stessa una riforma in sé.

L’evasione fiscale e contributiva, infatti, blocca lo sviluppo economico e civile perché penalizza l’equità, distorce la concorrenza, viola il patto sociale, peggiora il rapporto tra cittadini e Stato e riduce la solidarietà.

Il CSC ha calcolato in un 3,1% di maggiore PIL e in oltre 335mila occupati aggiuntivi il beneficio del dimezzamento dell’evasione accompagnato dalla restituzione ai contribuenti, attraverso l’abbassamento delle aliquote, delle risorse riguadagnate all’erario.

Si tratta, infatti, di cifre considerevoli. Il CSC stima che in Italia l’evasione fiscale e contributiva ammonti a 122,2 miliardi di euro nel 2015, pari al 7,5% del PIL. Al fisco vengono sottratti quasi 40 miliardi di IVA, 23,4 di IRPEF, 5,2 di IRES, 3,0 di IRAP, 16,3 di altre imposte indirette e 34,4 di contributi previdenziali.

L’ISTAT rivela che il sommerso economico, nel quale alberga l’evasione, è particolarmente elevato nelle altre attività di servizi (32,9% del valore aggiunto del settore), nel commercio, trasporti, attività di alloggio e ristorazione (26,2%), nelle costruzioni (23,4%) e nelle attività professionali (19,7%). Al contrario, ha una incidenza contenuta nelle attività finanziarie e assicurative (3,5%) e nella manifattura (6,0%).

Nel confronto europeo per livello di evasione, basato sul tax gap per l’IVA, l’Italia si attesta al secondo posto dopo la Grecia, con un gettito evaso pari al 33,6% di quello dovuto, contro il 16,5% della Spagna, l’11,2% della Germania, l’8,9% della Francia e il 4,2% dei Paesi Bassi.

L’elevato livello dell’evasione italiana può essere ricondotto a una serie di cause, tutte rilevanti e qui elencate non per ordine di importanza.

La percezione di inefficienza della PA nell’erogazione dei servizi, unitamente alla diffusa convinzione che molti evadano e l’elevata illegalità economica (corruzione), che sono molto rilevanti nello spiegare il comportamento così deviante dei contribuenti.

Ancora, l’inadeguatezza dell’amministrazione fiscale nell’effettuare i controlli, mirati a fare cassa e non alla deterrenza, tanto che il 99% dei contribuenti rischiano di subire un controllo ogni 33-50 anni. Altri paesi con livelli di evasione molto più bassi e condizioni di contesto più favorevoli si sono dotati di strumenti più efficaci, come emerge dall’analisi OCSE.

Inoltre, le elevate aliquote fiscali e l’onerosità degli adempimenti, che è massima in termini di numero di pagamenti e di tempo richiesto per assolvere gli obblighi.

In più, l’accentuata frammentazione della struttura produttiva, tratto caratteristico del sistema economico italiano, accresce le opportunità di evasione e rende più difficile il compito di controllo delle agenzie fiscali.

L’anomalia italiana va ricondotta a un capitale sociale inferiore e molto disomogeneo sul territorio. Con un senso dello Stato molto meno sviluppato di quanto sia in nazioni assai meno giovani.

Nell’opinione pubblica dal 2008 si è registrato un consenso crescente per il contrasto all’evasione, che risulta ora apprezzato dal 60% degli italiani. Quasi un italiano su due (48%) la giudica prioritaria, più della riduzione delle tasse stesse (prioritarie per il 23%), della spesa (15%) o del debito pubblico (12%).

Si tratta di un fatto importante, su cui far leva, per operare anzitutto un cambiamento culturale. Per sradicare l’evasione occorre, infatti, un’azione capillare di sensibilizzazione così da far comprendere che pagare le tasse è il modo corretto di stare nella comunità. Come accade in altri paesi, sono opportuni programmi educativi per illustrare agli studenti il funzionamento del sistema fiscale e il legame tra tassazione e spesa pubblica.

Quali sono le misure da adottare per sconfiggere l’evasione?

Per migliorare la tax compliance occorre innanzitutto partire da una maggiore cura nel monitoraggio dell’evasione fiscale, in quanto imprescindibile strumento per valutare la performance dell’azione di contrasto.

Ancora, occorre che obiettivi e incentivi del personale dell’Agenzia delle entrate siano ancorati al rispetto dei principi dello statuto del contribuente, alla facilitazione dell’esecuzione degli adempimenti fiscali, al contributo alla maggiore competitività delle imprese italiane, all’attrattività degli investimenti in Italia, alla prevenzione e al contrasto dell’evasione e dell’elusione e alla tempestività nell’erogazione dei servizi, compresi i provvedimenti di rimborsi e sgravio.

Occorre incentivare la trasmissione telematica delle operazioni IVA, sostituendo così l’emissione di scontrini/ricevute fiscali e la diffusione di strumenti elettronici di pagamento.

Va fatto un uso integrato delle banche dati, costantemente aggiornate. Soprattutto, è indispensabile realizzare l’integrazione o l’interoperabilità dell’Anagrafe Tributaria con le banche dati di altre amministrazioni pubbliche.

Poi, il modello di cooperative compliance va esteso rapidamente alla vasta platea di contribuenti di dimensione medio-piccola. Va riavvicinata l’interpretazione delle norme alla fonte stessa, assegnando un maggior ruolo al MEF. È necessaria più specializzazione nei controlli fiscali.

Vanno previste, come succede nelle migliori pratiche estere, l’assegnazione a ciascun grande contribuente di un funzionario che sia di contatto con l’amministrazione e l’istituzione di nuclei specializzati nella delicata materia del transfer pricing.

 

Il report completo e le slide di presentazione di Luca Paolazzi sono disponibili ai seguenti link: report completo e slide presentazione.

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