Produzione e commercio: come cambia la globalizzazione. La manifattura italiana riparte su buone basi.

Scenari industriali Confindustria n° 6 - Novembre 2015

 

L’industria manifatturiera italiana ha cominciato a risalire la china, con un passo ancora lento e assai
disomogeneo tra i suoi comparti.
Non si tratta di una falsa partenza, simile alle molte che hanno punteggiato la lunga crisi. Le prospettive
rivelate dai dati e garantite dalle condizioni internazionali favorevoli e dalla politica di bilancio non
più restrittiva sono di consolidamento e progressiva diffusione del recupero.
È un nuovo cominciamento impostato su buone fondamenta, non una semplice ripresa congiunturale.
Perché il contesto esterno e la realtà interna sono molto cambiati nell’arco degli ultimi anni e anzi
stanno ulteriormente mutando quasi sotto i nostri occhi.
Di questi mutamenti profondi e continui le imprese e il sistema tutto devono tener conto, modificando
strategie e adottando politiche adeguate, che abbiano al centro l’industria, motore dello sviluppo.
Sul fronte generale, la prima evidenza della trasformazione in atto si trova nella stabilizzazione delle
quote nazionali sulla produzione industriale mondiale, come risulta dall’annuale graduatoria elaborata
dal CSC. L’ascesa di alcuni paesi emergenti si è fatta meno dirompente. Un’analoga attenuazione del
profilo si può osservare per il calo della quota di molti paesi avanzati, con un chiaro appiattimento negli
ultimi anni. Prosegue, invece, la progressione impressionante, senza precedenti storici, della Cina: 8,3%
nel 2000, 14,3% nel 2007, 28,3% nel 2012 e 32,8% nel 2014.
La seconda evidenza rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia ed è nel rallentamento degli scambi
internazionali, che dall’insorgere della crisi marciano a ritmi modesti e molto inferiori a quelli del PIL,
all’opposto di quanto era accaduto nei precedenti trent’anni (almeno). Tanto che il rapporto tra commercio
e prodotto è in graduale diminuzione, dopo essere incessantemente salito e molto velocemente nel
periodo pre-crisi.
Non è una semplice pausa statistica, ma del riflesso di correnti profonde: l’attenuarsi degli effetti di
shock storici e tecnologici (caduta del muro tra Est e Ovest europei, ingresso della Cina nel WTO, rivoluzione
ICT); il fisiologico esaurimento dello slancio delle prime fasi dell’industrializzazione degli emergenti;
l’esperienza che ha spinto le imprese al ripensamento dell’organizzazione delle produzioni su scala
globale; le nuove politiche industriali che puntano a rivalorizzare il ruolo del manifatturiero; la fine della
grande liberalizzazione multilaterale degli scambi.
Su base europea, trasformazioni significative ci sono state nella distribuzione tra paesi delle produzioni
manifatturiere. Una crescente specializzazione è stata indotta dall’integrazione impressa con l’unione monetaria,
dall’aumentata concorrenza degli emergenti e dalla crisi.
La specializzazione è avvenuta seguendo in gran parte i vantaggi comparati, misurati con la produttività,
e si è accompagnata ovunque al ridimensionamento del manifatturiero, talvolta anche in termini
assoluti e non solo di peso.
Costituisce una cruciale eccezione la Germania (e, fuori dalla UE, la Svizzera) che ha accentuato il connotato
di hub: fa leva sulle competenze dei fornitori esteri a minor costo per aumentare la sua potenza
di grande esportatore (sul modello della Bazaar Economy). I dati smentiscono, però, la tesi di un euro
che abbia indebolito gli altri produttori europei a vantaggio dei tedeschi, giacché nel resto d’Europa l’import
dalla Germania è salito insieme alla produzione e non in sua sostituzione.
Anche l’Italia ha sperimentato una riduzione della quota del manifatturiero sul totale dell’economia: dal
19,2% nel 2000 al 15,3% nel 2013. Ma pagando un prezzo molto alto alla crisi (2,1 punti di calo sono
avvenuti dopo il 2007) e conservandola comunque a un livello nettamente più elevato di quelli di Francia,
Regno Unito e Spagna.
Nonostante abbia dovuto arretrare di fronte all’avanzata cinese nelle fasce basse di mercato, il Paese ha
ben difeso la specializzazione nei suoi tradizionali comparti di forza legati a moda e design, grazie alla
maggiore produttività e all’innalzamento dei valori unitari. Sono comparti che comunque rappresentano
appena il 14,5% dell’export italiano totale (dal 21,5% del 1991), a dimostrazione che la robustezza industriale
del Paese si fonda sull’esistenza di un’ampia e articolata struttura industriale, che forma
una solida piattaforma per il rilancio.
Rilancio che è cominciato nella seconda metà del 2014, con un passo dapprima titubante e poi più sicuro.
Ma a velocità diverse: rispetto al punto di minimo e a fronte di un dato medio di +2,3%, a oggi le variazioni
nella produzione vanno dal +70% dei motoveicoli, rimorchi e semirimorchi al +15% di farmaceutica,
bevande, abbigliamento, macchinari e attrezzature, al +10% dei mobili e all’ulteriore calo del
3-4% di legno, prodotti in metallo, pelletteria e calzature.
I vuoti scavati dalle due recessioni sono altrettanto differenziati: nei confronti del picco pre-crisi si
passa dal -4,3% dell’alimentare al -53,7% del legno, con mobili, tessile e prodotti in metallo a -35% e la
sola farmaceutica con segno positivo (+8,9%), essendo la media pari a -24%.
Gran parte di questi cali sono da considerare irrecuperabili e corrispondenti a distruzione di capacità,
già stimata dal CSC comparto per comparto1. Irrecuperabili, si intende, nelle forme e nei modi conosciuti.
Le perdite sono state molto rilevanti anche perché il downgrading della domanda, conseguente alla grande
caduta dei redditi familiari, ha colto in contropiede l’upgrading che in molte produzioni si stavano (e si
stanno) concretizzando, facendo mancare loro terreno sotto i piedi e premiando l’import da paesi a basso
costo. In ciò, peraltro, anche l’immigrazione ha giocato un ruolo, avendo gli stranieri una disponibilità di
reddito nettamente inferiore e orientando di conseguenza i consumi verso beni meno costosi e più basilari.
Una seconda eredità negativa della crisi è che essa ha colpito in modo asimmetrico i territori, nel senso
che, come immaginabile, sono arretrate maggiormente le produzioni manifatturiere là dove il tessuto industriale
aveva una trama più rada e in misura minore dove era più compatto. La spiegazione è nel differenziale di addensamento di competenze che consentono di reagire in modo più o meno rapido ed efficace,
cioè con adattabilità e resilienze assai disuguali.
Il CSC ha misurato questa asimmetria (fin dove la disponibilità temporale dei dati lo ha consentito) ed
evidenziato che la vocazione manifatturiera, stimata dal valore aggiunto pro-capite, è caduta molto
di più dove era già più bassa, ossia nelle province meridionali (con variazioni anche prossime al 30%),
che là dove era più alta, cioè in quelle settentrionali (dove si sono registrati perfino aumenti). Agli antipodi,
per esemplificare, troviamo Vicenza, con 9.681 euro per abitante e un +0,3% nel 2007-11 (a prezzi
correnti) e Agrigento con 588 euro e un -18,3%.
Ciò da un lato può rappresentare una rassicurazione: sono stati espulsi i produttori più fragili e meno
competitivi e sono stati preservati quelli meglio attrezzati a competere e a generare la ripartenza manifatturiera.
Dall’altro, aggrava la questione meridionale e fa diventare una sfida ancor più cogente e impegnativa
l’obiettivo di riduzione del divario tra più di un terzo del Paese e il resto.
Infine, la crisi ha messo a nudo i limiti dell’attuale assetto delle relazioni industriali e della contrattazione
collettiva nazionale, nella misura in cui il costo del lavoro ha marciato a ritmi pressoché costanti e indifferenti
alla variazione della produttività. Ciò ha comportato una nuova forte erosione della competitività
valutata sul CLUP sia della manifattura nel suo insieme sia dei singoli comparti che la compongono
(con l’unica eccezione del farmaceutico) e senza alcuna connessione con il peso del lavoro sul valore aggiunto.
Ne ha fatto le spese la redditività che è ai minimi.
Tuttavia, l’industria italiana, pur ridimensionata nella quantità, ha mantenuto nella qualità tre importanti
indicatori di vitalità e di forza competitiva: l’alta propensione a innovare, seconda solo a quella
delle imprese tedesche (e nei processi perfino davanti); l’elevato tasso di investimento (doppio di quelli
tedesco e francese e in linea con quello USA); la seconda posizione al Mondo per complessità di export
(dietro, di nuovo, alla Germania).
Questi elementi smentiscono molti luoghi comuni circa la fiacchezza (per alcuni atavica, per altri causata
dalla crisi) degli spiriti imprenditoriali italiani e formano solide basi per far ripartire lo sviluppo.
Purché lo si voglia2.
D’altra parte, se non fosse così, ossia se l’Italia non avesse dei vantaggi e delle competenze, non si spiegherebbe
il suo essere ottava potenza industriale, con una quota sulla produzione mondiale (2,5%)
che è un multiplo di quella demografica (0,8%), a conferma della sua elevata vocazione manifatturiera.
Il punto, semmai, è capire se, nel passare dall’ottica statica a quella dinamica, ciò basti per avere un elevato
tasso di crescita. L’analisi dell’andamento della produzione comparto per comparto, condotta in
Scenari industriali 2014, dà una risposta negativa, perché mostra che l’Italia cresce di più là dove il
Mondo avanza di meno, e viceversa.
In tutti i sensi, quindi, sono urgenti scelte politiche, sia nell’approntare una strategia coerente con
una visione di lungo periodo (che in Italia ancora sembra mancare) sia nell’adottare le misure concrete
per realizzarla.
2 Crescono i paesi che costruiscono le condizioni per lo sviluppo manifatturiero è nel titolo di Scenari industriali 2014.
C’è bisogno di politica, anzitutto per rafforzare la R&S, in cui l’Italia rimane molto indietro, sebbene
non tanto quanto i dati di spesa dicano.
E per cavalcare l’onda di Industria 4.0. Quest’ultima può rivoluzionare i modi di produrre e di utilizzare
i beni, quindi i consumi e gli investimenti, e può offrire alle imprese enormi margini per aumentare
l’efficienza, essere ancor più leste a cogliere i mutamenti della domanda, ridurre ulteriormente le ricadute
ambientali. Per essere sfruttata appieno servono quantomeno adeguate infrastrutture informatiche, nelle
quali il Paese è carente.
D’altra parte le imprese italiane devono fronteggiare concorrenti che hanno alle spalle il supporto dei
loro sistemi paese.
Dunque, è diventata ormai irrinuciabile la politica industriale, come strumento ordinario di politica
economica. Sia in sé, se si vogliono, appunto, cogliere tutte le potenzialità del manifatturiero come “sala
macchine” della crescita, sia per non lasciare l’industria italiana con un handicap.
Quali sono i principi guida ai quali una nuova politica industriale, ben distinta dal miglioramento dei
fattori di contesto (burocrazia, costo dell’energia, infrastrutture), dovrebbe ispirarsi? Nelle esperienze
internazionali ricorrono alcune invarianti: sostenibilità ambientale, efficienza energetica e diversificazione
delle fonti, invecchiamento della popolazione/salute. Queste costanti dimostrano anche che altrove l’industria
è considerata l’unica capace di offrire soluzioni alle grandi questioni attuali: cambiamento climatico
e conseguenze dell’allungamento della vita.
Inoltre, tutti i programmi di politica industriale fanno perno sull’innovazione, con la creazione di reti
per sviluppare nuove applicazioni tecnologiche e promuoverne il trasferimento alle imprese.
Oggi, e ancor più in prospettiva, l’esigenza è di favorire la nascita di “pionieri”, di aprire nuovi settori
e nuove specializzazioni e reinterpretare in termini tecnologicamente più evoluti quelli esistenti, come richiedono
le tendenze internazionali con le quali l’Italia si deve confrontare e rispetto alle quali deve
saper tenere il passo.
Avendo uno sguardo lungo, infatti, è vincente un’industria che sia innovativa (in grado di integrare i
risultati degli straordinari progressi scientifici all’interno di nuovi prodotti e servizi), sostenibile (capace
di trasformare i vincoli ambientali in opportunità di crescita e sviluppo) e interconnessa (leader nel
valorizzare l’ICT).
Dai nuovi Scenari industriali si possono trarre sei lezioni per le imprese.
Le prime due discendono dalle cause della diversa fase che la globalizzazione da qualche anno vive e
ancora per chissà quanto tempo vivrà: la minor spinta all’integrazione tra paesi appartenenti a blocchi
continentali diversi, che fa viaggiare meno i semilavorati e anche i prodotti finiti, e il ripensamento aziendale
della delocalizzazione maturato in seguito all’esperienza dei passati tre decenni.
Prima lezione: più che esportare conta sempre di più produrre nei mercati dove si vuole vendere, ossia internazionalizzazione
è la parola d’ordine. Per superare le barriere che sono aumentate, sopperire ai
tempi morti della logistica, intercettare i mutamenti della domanda, essere partner strategici nelle catene
del valore che sono un po’ meno global.
Seconda lezione: il futuro è nel differenziarsi e nel diversificare, potenziando e utilizzando le proprie
competenze core, attraverso un’incessante processo di ricerca e innovazione. Del quale il “fare”, anziché
il “far fare”, è parte integrante perché fonte di sapere. Evitando che la specializzazione, che della differenziazione
è causa ed effetto, si tramuti in vicolo cieco per la crescita.
Terza lezione, che deriva dal comportamento dei mercati delle commodity: non dare per scontato che i bassi
prezzi e l’abbondanza di materie prime siano per sempre e continuare ad attrezzarsi per migliorarne
l’uso. Gli anni di vacche magre e di quotazioni altissime avevano messo in moto un ciclo di investimenti
che si è tradotto in un aumento dell’offerta superiore a quello della domanda; da qui il crollo dei corsi sperimentato
nell’ultimo anno e mezzo, che ha già messo in moto tagli negli investimenti in esplorazioni,
coltivazioni, giacimenti. Cioè, il seme della prossima scarsità è già stato gettato, sebbene non si sappia
quando germoglierà.
Quarta lezione: puntare sul legame tra le retribuzioni e i risultati delle aziende. Gli aumenti uguali
per tutti, tra settori e tra aziende, dettati dalla contrattazione nazionale, non riescono a valorizzare i saperi
e le competenze delle persone, che vanno invece coltivati per avere quei miglioramenti di produttività
necessari a generare ritorni per gli investimenti e a gratificare con remunerazioni adeguate quelle
stesse persone. Gli incentivi alla contrattazione aziendale inseriti nella Legge di stabilità 2016 (500 milioni)
sono un ottimo motivo aggiuntivo.
Quinta lezione: cavalcare Industria 4.0, anziché subirla. Il paradigma dell’internet delle cose si affermerà,
magari con progressione anziché con un salto. Non considerarlo subito con grande attenzione può
rivelarsi letale.
Sesta lezione: ispirarsi ai driver attorno ai quali sono state disegnate le politiche industriali negli altri
maggiori paesi industriali (Cina inclusa). Sono quelli che plasmeranno la domanda di domani e che promettono
i più alti tassi di crescita dei fatturati.

L’industria manifatturiera italiana ha cominciato a risalire la china, con un passo ancora lento e assai disomogeneo tra i suoi comparti.

Non si tratta di una falsa partenza, simile alle molte che hanno punteggiato la lunga crisi. Le prospettive rivelate dai dati e garantite dalle condizioni internazionali favorevoli e dalla politica di bilancio non più restrittiva sono di consolidamento e progressiva diffusione del recupero.

È un nuovo cominciamento impostato su buone fondamenta, non una semplice ripresa congiunturale. Perché il contesto esterno e la realtà interna sono molto cambiati nell’arco degli ultimi anni e anzi stanno ulteriormente mutando quasi sotto i nostri occhi.

Di questi mutamenti profondi e continui le imprese e il sistema tutto devono tener conto, modificando strategie e adottando politiche adeguate, che abbiano al centro l’industria, motore dello sviluppo.

Sul fronte generale, la prima evidenza della trasformazione in atto si trova nella stabilizzazione delle quote nazionali sulla produzione industriale mondiale, come risulta dall’annuale graduatoria elaborata dal CSC. L’ascesa di alcuni paesi emergenti si è fatta meno dirompente. Un’analoga attenuazione del profilo si può osservare per il calo della quota di molti paesi avanzati, con un chiaro appiattimento negli ultimi anni. Prosegue, invece, la progressione impressionante, senza precedenti storici, della Cina: 8,3% nel 2000, 14,3% nel 2007, 28,3% nel 2012 e 32,8% nel 2014.

La seconda evidenza rappresenta l’altra faccia della stessa medaglia ed è nel rallentamento degli scambi internazionali, che dall’insorgere della crisi marciano a ritmi modesti e molto inferiori a quelli del PIL, all’opposto di quanto era accaduto nei precedenti trent’anni (almeno). Tanto che il rapporto tra commercio e prodotto è in graduale diminuzione, dopo essere incessantemente salito e molto velocemente nel periodo pre-crisi.

Non è una semplice pausa statistica, ma del riflesso di correnti profonde: l’attenuarsi degli effetti di shock storici e tecnologici (caduta del muro tra Est e Ovest europei, ingresso della Cina nel WTO, rivoluzione ICT); il fisiologico esaurimento dello slancio delle prime fasi dell’industrializzazione degli emergenti; l’esperienza che ha spinto le imprese al ripensamento dell’organizzazione delle produzioni su scala globale; le nuove politiche industriali che puntano a rivalorizzare il ruolo del manifatturiero; la fine della grande liberalizzazione multilaterale degli scambi.

Su base europea, trasformazioni significative ci sono state nella distribuzione tra paesi delle produzioni manifatturiere. Una crescente specializzazione è stata indotta dall’integrazione impressa con l’unione monetaria, dall’aumentata concorrenza degli emergenti e dalla crisi.

La specializzazione è avvenuta seguendo in gran parte i vantaggi comparati, misurati con la produttività, e si è accompagnata ovunque al ridimensionamento del manifatturiero, talvolta anche in termini assoluti e non solo di peso.

Costituisce una cruciale eccezione la Germania (e, fuori dalla UE, la Svizzera) che ha accentuato il connotato di hub: fa leva sulle competenze dei fornitori esteri a minor costo per aumentare la sua potenza di grande esportatore (sul modello della Bazaar Economy). I dati smentiscono, però, la tesi di un euro che abbia indebolito gli altri produttori europei a vantaggio dei tedeschi, giacché nel resto d’Europa l’import dalla Germania è salito insieme alla produzione e non in sua sostituzione.

Anche l’Italia ha sperimentato una riduzione della quota del manifatturiero sul totale dell’economia: dal 19,2% nel 2000 al 15,3% nel 2013. Ma pagando un prezzo molto alto alla crisi (2,1 punti di calo sono avvenuti dopo il 2007) e conservandola comunque a un livello nettamente più elevato di quelli di Francia, Regno Unito e Spagna.

Nonostante abbia dovuto arretrare di fronte all’avanzata cinese nelle fasce basse di mercato, il Paese ha ben difeso la specializzazione nei suoi tradizionali comparti di forza legati a moda e design, grazie alla maggiore produttività e all’innalzamento dei valori unitari. Sono comparti che comunque rappresentano appena il 14,5% dell’export italiano totale (dal 21,5% del 1991), a dimostrazione che la robustezza industriale del Paese si fonda sull’esistenza di un’ampia e articolata struttura industriale, che forma una solida piattaforma per il rilancio.

Rilancio che è cominciato nella seconda metà del 2014, con un passo dapprima titubante e poi più sicuro. Ma a velocità diverse: rispetto al punto di minimo e a fronte di un dato medio di +2,3%, a oggi le variazioni nella produzione vanno dal +70% dei motoveicoli, rimorchi e semirimorchi al +15% di farmaceutica, bevande, abbigliamento, macchinari e attrezzature, al +10% dei mobili e all’ulteriore calo del 3-4% di legno, prodotti in metallo, pelletteria e calzature.

I vuoti scavati dalle due recessioni sono altrettanto differenziati: nei confronti del picco pre-crisi si passa dal -4,3% dell’alimentare al -53,7% del legno, con mobili, tessile e prodotti in metallo a -35% e la sola farmaceutica con segno positivo (+8,9%), essendo la media pari a -24%.

Gran parte di questi cali sono da considerare irrecuperabili e corrispondenti a distruzione di capacità, già stimata dal CSC comparto per comparto. Irrecuperabili, si intende, nelle forme e nei modi conosciuti.

Le perdite sono state molto rilevanti anche perché il downgrading della domanda, conseguente alla grande caduta dei redditi familiari, ha colto in contropiede l’upgrading che in molte produzioni si stavano (e si stanno) concretizzando, facendo mancare loro terreno sotto i piedi e premiando l’import da paesi a basso costo. In ciò, peraltro, anche l’immigrazione ha giocato un ruolo, avendo gli stranieri una disponibilità di reddito nettamente inferiore e orientando di conseguenza i consumi verso beni meno costosi e più basilari.

Una seconda eredità negativa della crisi è che essa ha colpito in modo asimmetrico i territori, nel senso che, come immaginabile, sono arretrate maggiormente le produzioni manifatturiere là dove il tessuto industriale aveva una trama più rada e in misura minore dove era più compatto. La spiegazione è nel differenziale di addensamento di competenze che consentono di reagire in modo più o meno rapido ed efficace, cioè con adattabilità e resilienze assai disuguali.

Il CSC ha misurato questa asimmetria (fin dove la disponibilità temporale dei dati lo ha consentito) ed evidenziato che la vocazione manifatturiera, stimata dal valore aggiunto pro-capite, è caduta molto di più dove era già più bassa, ossia nelle province meridionali (con variazioni anche prossime al 30%), che là dove era più alta, cioè in quelle settentrionali (dove si sono registrati perfino aumenti). Agli antipodi, per esemplificare, troviamo Vicenza, con 9.681 euro per abitante e un +0,3% nel 2007-11 (a prezzi correnti) e Agrigento con 588 euro e un -18,3%.

Ciò da un lato può rappresentare una rassicurazione: sono stati espulsi i produttori più fragili e meno competitivi e sono stati preservati quelli meglio attrezzati a competere e a generare la ripartenza manifatturiera. Dall’altro, aggrava la questione meridionale e fa diventare una sfida ancor più cogente e impegnativa l’obiettivo di riduzione del divario tra più di un terzo del Paese e il resto.

Infine, la crisi ha messo a nudo i limiti dell’attuale assetto delle relazioni industriali e della contrattazione collettiva nazionale, nella misura in cui il costo del lavoro ha marciato a ritmi pressoché costanti e indifferenti alla variazione della produttività. Ciò ha comportato una nuova forte erosione della competitività valutata sul CLUP sia della manifattura nel suo insieme sia dei singoli comparti che la compongono (con l’unica eccezione del farmaceutico) e senza alcuna connessione con il peso del lavoro sul valore aggiunto. Ne ha fatto le spese la redditività che è ai minimi.

Tuttavia, l’industria italiana, pur ridimensionata nella quantità, ha mantenuto nella qualità tre importanti indicatori di vitalità e di forza competitiva: l’alta propensione a innovare, seconda solo a quella delle imprese tedesche (e nei processi perfino davanti); l’elevato tasso di investimento (doppio di quelli tedesco e francese e in linea con quello USA); la seconda posizione al Mondo per complessità di export (dietro, di nuovo, alla Germania).

Questi elementi smentiscono molti luoghi comuni circa la fiacchezza (per alcuni atavica, per altri causata dalla crisi) degli spiriti imprenditoriali italiani e formano solide basi per far ripartire lo sviluppo. Purché lo si voglia.

D’altra parte, se non fosse così, ossia se l’Italia non avesse dei vantaggi e delle competenze, non si spiegherebbe il suo essere ottava potenza industriale, con una quota sulla produzione mondiale (2,5%) che è un multiplo di quella demografica (0,8%), a conferma della sua elevata vocazione manifatturiera.

Il punto, semmai, è capire se, nel passare dall’ottica statica a quella dinamica, ciò basti per avere un elevato tasso di crescita. L’analisi dell’andamento della produzione comparto per comparto, condotta in Scenari industriali 2014, dà una risposta negativa, perché mostra che l’Italia cresce di più là dove il Mondo avanza di meno, e viceversa.

In tutti i sensi, quindi, sono urgenti scelte politiche, sia nell’approntare una strategia coerente con una visione di lungo periodo (che in Italia ancora sembra mancare) sia nell’adottare le misure concrete per realizzarla.

C’è bisogno di politica, anzitutto per rafforzare la R&S, in cui l’Italia rimane molto indietro, sebbene non tanto quanto i dati di spesa dicano.

E per cavalcare l’onda di Industria 4.0. Quest’ultima può rivoluzionare i modi di produrre e di utilizzare i beni, quindi i consumi e gli investimenti, e può offrire alle imprese enormi margini per aumentare l’efficienza, essere ancor più leste a cogliere i mutamenti della domanda, ridurre ulteriormente le ricadute ambientali. Per essere sfruttata appieno servono quantomeno adeguate infrastrutture informatiche, nelle quali il Paese è carente.

D’altra parte le imprese italiane devono fronteggiare concorrenti che hanno alle spalle il supporto dei loro sistemi paese.

Dunque, è diventata ormai irrinuciabile la politica industriale, come strumento ordinario di politica economica. Sia in sé, se si vogliono, appunto, cogliere tutte le potenzialità del manifatturiero come “sala macchine” della crescita, sia per non lasciare l’industria italiana con un handicap.

Quali sono i principi guida ai quali una nuova politica industriale, ben distinta dal miglioramento dei fattori di contesto (burocrazia, costo dell’energia, infrastrutture), dovrebbe ispirarsi? Nelle esperienze internazionali ricorrono alcune invarianti: sostenibilità ambientale, efficienza energetica e diversificazione delle fonti, invecchiamento della popolazione/salute. Queste costanti dimostrano anche che altrove l’industria è considerata l’unica capace di offrire soluzioni alle grandi questioni attuali: cambiamento climatico e conseguenze dell’allungamento della vita.

Inoltre, tutti i programmi di politica industriale fanno perno sull’innovazione, con la creazione di reti per sviluppare nuove applicazioni tecnologiche e promuoverne il trasferimento alle imprese.

Oggi, e ancor più in prospettiva, l’esigenza è di favorire la nascita di “pionieri”, di aprire nuovi settori e nuove specializzazioni e reinterpretare in termini tecnologicamente più evoluti quelli esistenti, come richiedono le tendenze internazionali con le quali l’Italia si deve confrontare e rispetto alle quali deve saper tenere il passo.

Avendo uno sguardo lungo, infatti, è vincente un’industria che sia innovativa (in grado di integrare i risultati degli straordinari progressi scientifici all’interno di nuovi prodotti e servizi), sostenibile (capace di trasformare i vincoli ambientali in opportunità di crescita e sviluppo) e interconnessa (leader nel valorizzare l’ICT).

Dai nuovi Scenari industriali si possono trarre sei lezioni per le imprese.

Le prime due discendono dalle cause della diversa fase che la globalizzazione da qualche anno vive e ancora per chissà quanto tempo vivrà: la minor spinta all’integrazione tra paesi appartenenti a blocchi continentali diversi, che fa viaggiare meno i semilavorati e anche i prodotti finiti, e il ripensamento aziendale della delocalizzazione maturato in seguito all’esperienza dei passati tre decenni.

Prima lezione: più che esportare conta sempre di più produrre nei mercati dove si vuole vendere, ossia internazionalizzazione è la parola d’ordine. Per superare le barriere che sono aumentate, sopperire ai tempi morti della logistica, intercettare i mutamenti della domanda, essere partner strategici nelle catene del valore che sono un po’ meno global.

Seconda lezione: il futuro è nel differenziarsi e nel diversificare, potenziando e utilizzando le proprie competenze core, attraverso un’incessante processo di ricerca e innovazione. Del quale il “fare”, anziché il “far fare”, è parte integrante perché fonte di sapere. Evitando che la specializzazione, che della differenziazione è causa ed effetto, si tramuti in vicolo cieco per la crescita.

Terza lezione, che deriva dal comportamento dei mercati delle commodity: non dare per scontato che i bassi prezzi e l’abbondanza di materie prime siano per sempre e continuare ad attrezzarsi per migliorarne l’uso. Gli anni di vacche magre e di quotazioni altissime avevano messo in moto un ciclo di investimenti che si è tradotto in un aumento dell’offerta superiore a quello della domanda; da qui il crollo dei corsi sperimentato nell’ultimo anno e mezzo, che ha già messo in moto tagli negli investimenti in esplorazioni, coltivazioni, giacimenti. Cioè, il seme della prossima scarsità è già stato gettato, sebbene non si sappia quando germoglierà.

Quarta lezione: puntare sul legame tra le retribuzioni e i risultati delle aziende. Gli aumenti uguali per tutti, tra settori e tra aziende, dettati dalla contrattazione nazionale, non riescono a valorizzare i saperi e le competenze delle persone, che vanno invece coltivati per avere quei miglioramenti di produttività necessari a generare ritorni per gli investimenti e a gratificare con remunerazioni adeguate quelle stesse persone. Gli incentivi alla contrattazione aziendale inseriti nella Legge di stabilità 2016 (500 milioni) sono un ottimo motivo aggiuntivo.

Quinta lezione: cavalcare Industria 4.0, anziché subirla. Il paradigma dell’internet delle cose si affermerà, magari con progressione anziché con un salto. Non considerarlo subito con grande attenzione può rivelarsi letale.

Sesta lezione: ispirarsi ai driver attorno ai quali sono state disegnate le politiche industriali negli altri maggiori paesi industriali (Cina inclusa). Sono quelli che plasmeranno la domanda di domani e che promettono i più alti tassi di crescita dei fatturati.

 

In allegato il report completo e le slide della presentazione di Luca Paolazzi.

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